(3) Tradizione e cambiamento
Scritto da HockeyItaliano il 06/11/2010
(segue)
Tradizione e cambiamento, vetustà e modernità sono caratteri distintivi dell’hockey prato. Essi hanno costituito e costituiscono tuttora i tratti univoci di un processo che, lungi dall’essere esaustivo e immutato, continua a creare mutazioni organiche attorno ad un nucleo centrale originale: corpo umano – bastone – palla.
Spazio e tempo hanno sì modificato i caratteri del gioco ma più che un vero e proprio cambiamento penso sia più giusto parlare di un aggiornamento, un aggiustamento alla mutevolezza degli eventi, degli uomini, dei luoghi tanto che un “hockeista” del medio evo farebbe poca fatica a padroneggiare le tecniche di gioco contemporanee, incredulo semmai di fronte alla assenza di limitazioni sociali e culturali così evidenti e frustranti nel suo tempo e alla mancanza di violenza liberatoria che ogni forma di attività fisica conteneva al suo interno.
Servirebbero ai giorni nostri tutti coloro che nel Medio Evo, incuranti di proibizioni, sanzioni corporali e pecuniarie, si diedero alla pratica del gioco della “palla e bastone” per rendere ancora maggiore il numero dei praticanti di questa disciplina in una sorta di mirabolante trait d’union di intenti partecipativi e corporativi col presente.
E senza dubbio servirebbero nel nostro paese, almeno per accrescere la quantità di praticanti, così ferocemente e visceralmente attaccati al gioco del calcio tanto da eleggerlo a valore standard di vita, a volte di morte.
L’hockey nostrano fatica a emergere nel panorama degli sport nazionali sia per quantità sia per qualità, essendo le due cose strettamente connesse e inter-relate l’una con l’altra secondo il principio che, se sono pochi coloro che giocano a hockey, il livello di gioco non può essere eccelso.
E’ questa dicotomia: quantità – qualità, meglio sarebbe dire la labile presenza di questa dicotomia in Italia una caratteristica di fondo che ci contraddistingue. Ne faremmo tutti volentieri a meno, in primo luogo nei confronti di altri sport che possono vantare situazioni meglio consolidate, risultati migliori, considerazione più certificata da parte di pubblico e addetti ai lavori, inoltre e in secondo luogo nei confronti dell’hockey alieno, di quello cioè con cui ci troviamo a confrontarci nelle manifestazioni internazionali.
Ecco un tratto in più dell’hockey italiano: la mancanza di importanti risultati internazionali. Da qui deriva il nostro inserimento di praticanti sportivi in una zona d’ombra a tenui chiaroscuri, un limbo opprimente da cui è difficoltoso uscire.
Qualcuno può formulare la stuzzicante ipotesi che giocare ad hockey va contro le caratteristiche morfologiche, strutturali, mentali e caratteriali dell’atleta tipo italiano, in altre parole qualcosa, non ben definito, ci impedirebbe di assurgere al livello medio di altre nazioni che invece occupano una posizione migliore della nostra nel panorama internazionale.
Mettiamoci l’animo in pace se davvero pensiamo così. Io però non credo sia una considerazione corretta: l’esame attento di come si fa hockey in Italia porta a contraddire senza ombra di dubbio questa incauta affermazione.
Ci sono stati e tuttora ci sono abili hockeisti in Italia, giocatori che avrebbero potuto e potrebbero degnamente giocare a fianco di campioni stranieri. Non è questo che ci manca, intendo dire non le capacità a sfruttare doti, abilità tecniche, fisiche e mentali delle persone.
Ci giochiamo la credibilità come nazione hockeistica importante nell’incapacità a superare difficoltà ambientali, sociali, finanziarie, sportive, umane di una società chiusa, strutturata attorno a valori quali il successo sùbito, il denaro, i privilegi come conseguenza del proprio operato.
L’ossessione per una maggiore visibilità ci porta a cercare strade alternative che non possiamo permetterci di seguire: come un pendolo, oscilliamo continuamente tra la necessità di conseguire risultati importanti quindi riconoscimenti, vantaggi e il desiderio di perseguire un progetto meno immediato, di una realizzazione più radicata sul territorio, più armonica nei tempi nei modi e sulle persone direi, abusando di una nota espressione, più “ a misura d’uomo”.
Non sappiamo o vogliamo uscire da questo empasse, condizionati da fattori esterni e limitazioni interne: continuiamo a cercare di liberarci da questa situazione densa, vischiosa che ci avviluppa e ci impedisce di fare completamente e per intero una o l’altra delle cose.
Il nostro hockey finisce paradossalmente per rimanere uguale a se stesso, senza “aggiustarsi”, aggiornarsi, diventare grande. Certo cresciamo ma siamo di salute cagionevole, soggetti a malesseri e malattie di stagione che limitano il nostro benessere come individuo e gruppo di persone. Le crisi, inevitabili e periodiche, non sono foriere di “crescita” piuttosto di perdite di organismi umani (persone) e sociali (sodalizi).
Ci fa difetto, in buona sostanza, una visione condivisa di obiettivi comuni, una finalità di intenti, la capacità di razionalizzare le risorse a disposizione e non ultima, una mentalità troppo “italica” al compromesso, alla ricerca del proprio particolare, al pensare all’oggi privilegiando obiettivi parziali, poco strutturati.
Potremmo mai sperare di diventare qualcosa di meglio?
Preferisco accreditare ad altri una risposta di valore; per mio conto sto solamente cercando di capire, per puro spirito speculativo ed ecumenico, il significato dell’hockey in generale.
Speculativo poiché da tanto mi dedico cocciutamente a questa attività, pertanto voglio comprendere le ragioni di questa scelta di vita che mai mi ha procurato vantaggi e guadagni ma solo una immensa soddisfazione fisica e mentale, ecumenico in quanto ritengo probabile che la motivazione di questa scelta individuale sia condivisa da moltitudini di hockeisti sparsi in tutto il mondo e oltre ancora.
(continua)
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