(4) L’hockey che piace
Scritto da HockeyItaliano il 06/11/2010
(segue)
Chiedo scusa per tale divagazione sull’hockey italico e riprendo per la strada maestra sì indegnamente abbandonata per chimere di facili costumi.
L’hockey come la cioccolata, la pizza, l’i-pod, il gentil sesso (il mio punto vista, strettamente ortodosso, condiziona ovviamente l’ultimo elemento dell’elenco ben lungi dall’essere esaustivo) gode di molte simpatie popolari. E’ un valore importante nella civiltà contemporanea tanto da costituire una categoria a sé stante, oggetto di studi e ricerche gnoseologiche. In tal senso, l’aggettivo “popolare” qui usato non vuole assumere una connotazione sociale precisa, non identifica cioè una definita classe sociale di individui, i ceti operai piuttosto che la media borghesia, i liberi professionisti piuttosto che i lavoratori dipendenti. Piace a tutti in misura quantificabile per mezzo di test di certificazione elaborati dai ricercatori di alcune tra le migliori università europee. Il suo significato trasversale è quindi uno dei denominatori della sua riconosciuta universalità.
Altro importante denominatore è la facilità con la quale tutti, uomini e donne, possono dedicarsi con successo a questo gioco sociale. Nessuno sport come l’hockey accetta chiunque voglia dedicarsi a lui, lo accoglie amorevolmente tra i suoi praticanti: altre attività sportive sono caratterizzate da una selezione accurata e ragionata, una sorta di selezione naturale, che provoca casi di abbandono, crisi di identità, pianti dirotti, ingiurie e improperi tra gli esclusi.
Una buona forma fisica e una capacità raziocinante media sono requisiti imprescindibili per potersi dedicare a molte tra le più comuni e frequentate attività ludiche organizzate. Chi non possiede valori standard, rigidamente fissati e verificabili, è fuori, non può , in altre parole, fare questo o quello sport.
Tale concetto di selezione naturale è alieno alla mentalità dei quadri dirigenziali preposti alla diffusione e propaganda dell’hockey: il fatto stesso di aver scelto l’hockey come sport da praticare costituisce il valore fattuale di scelta: questo è valido persino nei casi di coloro i quali, dopo aver fatto altre scelte sportive ed essere stati da queste allontanati, per manifeste incapacità o inettitudine o altro ancora, si danno all’hockey.
L’ecumenismo è di conseguenza il terzo fattore distintivo dell’hockey, secondo alcuni filosofi il retaggio inconscio del cervello umano che conserva nei suoi geni e trasmette di generazione in generazione il ricordo sociale dei primi uomini che si diedero alla pratica del gioco di palla e bastone, traendone benefici fisici e mentali insuperabili.
L’hockey è quindi una forma di benessere individuale e collettivo tra le più alte e acclamate dal genere umano, un benessere che sapeva e sa metabolizzare in un piacere assoluto le piccole parti negative di un atto, una prestazione, un gesto quali colpi – più o meno fortuiti - con la palla, il bastone, colla palla e col bastone insieme.
Se nel panorama hockeistico internazionale questa posizione di accoglienza incondizionata è del tutto naturale, da poco si sta affermando, nel mondo italiano – mi spiace ma devo parlarne - una corrente critica di studiosi ed esperti che attribuiscono alla mancanza di selezione gli scarsi risultati raggiunti dall’hockey dentro e fuori l’ Italia.
Anche in questo caso non mi sento di esprimere un giudizio in merito alla questione sollevata se non affermando, di sfuggita, come una siffatta situazione sia assente del tutto o quasi in altri nazioni europee caratterizzate dallo stesso valore ecumenico dell’hockey come sport per tutti, come ha detto qualcuno “ uno sport per tutti, uno sport per tutte le stagioni”.
In ultimo non rimane che fare cenno alla assoluta mancanza di riconoscimenti pecuniari che l’hockey tuttora procura; molti altri sport sono occasione di guadagno, a volte di ricchezza individuale, di avanzamento nella gerarchia sociale (spesso, non sempre logicamente i due fattori vanno di pari passo) tanto da costituire un valore da perseguire e raggiungere fin dalla tenera età.
Un ego e super-ego (perché no?) smisurato, fuori dalla realtà fanno assumere a certi uomini di sport atteggiamenti, posizioni e comportamenti apertamente asociali, negativi per l’innato individualismo forsennato, spinto alle sue estreme conseguenze, in aperto contrasto con lo spirito associativo, il desiderio immanente in ogni essere umano di essere parte di un grande e saldo edificio sociale.
La capacità di guadagno di queste categorie di sportivi finisce per essere percepito come una forma di destabilizzazione sociale da parte delle persone comuni, delle molte persone che praticano sport come forma socializzante del proprio tempo libero. I rapporti tra le varie forze sociali, gli stimoli di molti a divenire quello che pochi sono riusciti ad essere con lo sport diventa forza disgregativa, negazione di solidarietà individuale e di gruppo, invidia, incitamento alla contumelia, alla calunnia, iniquità sociale se questa inopinata fonte di reddito è rapportata a quella di categorie di persone prestigiose, acculturate, socialmente più “utili” ma poco o male retribuite. Quanto guadagna in un anno un valente ricercatore che ha fatto scoperte importanti sulle cellule staminali ad esempio può essere lo stipendio mensile che un valente calciatore ottiene da ditte sportive di cui pubblicizza i prodotti, per non citare gli emolumenti canonici elargitigli dal club.
Tutto questo è assente nell’hockey dal momento che l’unico riconoscimento per la pratica di questa forma di intrattenimento fisico e mentale è la condivisione di una serena gratificazione del proprio e altrui operato. Per questo l’hockey assurge prepotentemente a paradigma di fratellanza umana, sociale e fiscale, mezzo di condivisione e accettazione di valori universali quali amicizia, bontà, uguaglianza, fair play, fede, speranza, carità, amore. Si spiega altresì come il suo successo sia costantemente avversato o tenuto a freno da soggetti e gruppi di potere che vedono nella sua esistenza, un grande pericolo per il perseguimento di interessi privati e personali, spesso in contrasto con i valori guida che una società moderna dovrebbe riconoscere, perseguire e diffondere.
Infine, pare necessario osservare come questa positività naturale, propria del mondo sportivo hockeistico, giochi contro la sua penetrazione nelle menti delle giovani generazioni. Da una parte esso, l’hockey, è gradito, praticato, amato da quanti lo conoscono e non lo hanno deliberatamente evitato, dall’altra no, poiché le masse sono condizionate, attraverso parametri di giudizio e valori, alla ricerca di realizzazioni sportive che non potranno mai avere luogo per tutti ma che, proprio per questo, attirano gli appetiti della gente.
Ma infine può a ogni buon conto l’hockey prato ritenersi uno sport oltre che un gioco, nel novero di quelli che sono detti “giochi sportivi”?
(continua)
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